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Sul profilo Instagram ufficiale del sito gianlucadimarzio.com si è tenuta alle 14.00 una diretta che ha visto come protagonista il mister biancorosso Domenico Di Carlo, intervistato nell’occasione da Lorenzo Buconi. Di seguito riportiamo i punti salienti delle dichiarazioni del mister.

Come sta andando? Come stai passando questa quarantena?
Tutto bene direi. Le giornate sono abbastanza organizzate. Tutti i giorni facciamo una riunione con lo staff tecnico per definire il programma degli allenamenti, rigorosamente casalinghi, per i giocatori. Poi ci sentiamo quotidianamente con la società per eventuali aggiornamenti sulla situazione del calcio italiano.

Ci racconti qualche retroscena sul tuo ritorno in biancorosso?
È successo tutto in due giorni, sono stato blindato dalla famiglia Rosso. Per me la categoria non conta nulla, questa piazza ha un sapore diverso. Ho sempre promesso che sarei tornato in questa piazza, fin da quando ho finito la mia carriera di giocatore. Guidare la squadra che ha segnato la mia carriera da calciatore penso sia il massimo, chiaro che ci sono pro e contro nel tornare dove si è fatto molto bene ma ho la giusta esperienza per gestire questa esperienza.

Cosa ti ha colpito maggiormente del tuo ritorno in biancorosso?
Il rapporto è sempre stato di grande stima, ho sempre girato la città tranquillamente avendo grande rispetto per tutti. C’è un qualcosa che sfugge a tutti: in questo tipo di esperienze serve essere razionali, ma qui c’è qualcosa di speciale che si sente dentro. Ora, io l’ho sempre sentita questa cosa per ogni club che ho allenato, ho sempre avuto un carattere propositivo anche se chiaramente serve adattarsi al contesto, ma a Vicenza dopo tanti anni di negatività è successo qualcosa di straordinario grazie alla nuova società gestita dai Rosso. Ho sposato questo progetto perché c’erano la famiglia Rosso e gli altri soci che davano solidità al progetto a medio-lungo termine. Poi ci sono altre figure come Bedin e Magalini, che conosco bene da tanto tempo e che stimo molto, anche loro hanno inciso molto. L’insieme di questi fattori ha portato la tifoseria a tornare allo Stadio contenta: ci applaudono sempre perché vedono l’impegno, ma il contesto societario dà certamente sicurezza aggiuntiva.

Se dovessi definire chi è Mimmo Di Carlo come risponderesti?
Sono nato a Cassino in quartiere popolare, la mia famiglia mi ha insegnato il rispetto delle regole ma ero molto monello, ero un combattente fin da ragazzino, non volevo mai perdere ed ero molto curioso. A 16 anni ho esordito in C2 a Cassino e da lì è partito tutto. Ho vissuto grandissime soddisfazioni. A Palermo è nata Sharon, la mia prima figlia, sono molto legato a quella città, ma ovunque sono andato mi sono trovato molto bene e sono rimasto legato. Tramite la gavetta sono riuscito ad arrivare in alto, ci ho messo determinazione e tanta forza di volontà. Sono molto soddisfatto di ciò che ho fatto. Dovessi dare un consiglio direi che serve essere curiosi, vogliosi di studiare e di migliorarsi sempre. Io ho fatto dieci anni a Vicenza da calciatore e pensavo che quel modo di fare calcio fosse quello vincente, ma quando sono andato via mi sono reso conto che si poteva vincere anche in un altro modo. Serve aprirsi al resto del mondo, essere curiosi ed evolversi.

Se non avessi sfondato nel mondo del calcio cosa avresti fatto?
È un bel problema, da ragazzino il calcio per me era tutto. Chiaramente studiavo (facevo ragioneria), avevo il pensiero di voler prendere un diploma per evitare di lavorare nella macelleria di famiglia. Volevo fare la mia strada e a 16 anni ho avuto questa possibilità quando sono andato via da Cassino. Devo ringraziare molto mia moglie Annamaria, con cui ci siamo sposati all’età di 21 anni, perché mi ha dato grande supporto nei momenti di sconforto. La serenità è fondamentale per fare bene, tutti hanno dei momenti difficili, se non hai una persona equilibrata al tuo fianco è difficile rendere al 100% perché la testa non è lucida come dovrebbe.

Il momento più bello e quello più brutto della carriera da calciatore?
Momento più bello sicuramente la Coppa Italia. Nessuno pensava che potessimo arrivare in finale, abbiamo fatto un percorso importante e siamo arrivati a un atto finale molto difficile. Per noi contava quell’appuntamento perché era un’occasione unica, lì non contava la forza dei singoli, contava la forza del gruppo. Abbiamo lottato e abbiamo vinto, siamo stati anche un po’ fortunati ma ce la siamo cercata. Anche la semifinale con il Chelsea è stata tanta roba, sono partite che si preparano da sole.
Momenti brutti ce ne sono stati: col Livorno per esempio abbiamo perso la finale playoff. Col Como sono stato fermo per un anno mentre i miei compagni vincevano il campionato. È stato un anno bruttissimo ma mi ha aiutato a crescere molto come uomo, a non lamentarmi più per le piccole cose.

E della tua carriera da allenatore cosa ci racconti? In particolar modo sul Chievo?
Il Chievo è una famiglia e io ne faccio parte, sia col presidente che con i calciatori. Frey, Cesar, Pellissier li ho ritirati fuori io l’anno scorso. Quando un calciatore è forte fa la differenza a prescindere dall’età. Se sono stato allenatore del Chievo per molto tempo è grazie ai gol di Pellissier, che ha finalizzato la mia idea di gioco facendo tanti gol. Per me è uno di un’altra categoria, anche se lui non voleva giocare nelle grandi. Ha rifiutato il Napoli perché non voleva fare panchina, così come Sorrentino, altro grandissimo giocatore. È un peccato che abbiano smesso ma l’età avanza per tutti. Per quanto riguarda i momenti più belli direi la scalata dalla C2 alla A sfiorata col Mantova: peccato non esistesse il VAR all’epoca perché l’avremmo dovuta vincere noi. La salvezza del Chievo arrivata dopo essere stati ultimi con 9 punti in classifica a Gennaio è stata strepitosa. L’annata con la Sampdoria è stata dolce e amara allo stesso tempo, però tutte le esperienze ti insegnano qualcosa. Il momento più brutto è stato certamente il preliminare di Champions con la Sampdoria: quell’anno avevano già deciso di ridurre i costi ed essere eliminati a 40 secondi dalla fine sul 3-0 ha fatto male, sono cose che ti cambiano la carriera. Wagner, che era sul mercato e non avrebbe neanche dovuto giocare, è stato sostituito da Rosenberg, anch’esso sul mercato, entrato solo perché Wagner si era tagliato e non c’era una maglietta di riserva. Ha segnato il gol del 3-1 che ha portato la contesa ai supplementari, dove siamo stati eliminati.

Qualche aneddoto particolare sulla tua carriera?
Con il gruppo storico del Vicenza ci riunivamo e creavamo una motivazione particolare per la settimana in corso. Una volta contro l’Udinese di Galeone, che era una grande squadra con un grande allenatore, ci caricammo leggendo le dichiarazioni del mister che diceva che noi non giocavamo a calcio. Abbiamo fatto centinaia di fotocopie delle pagine di giornale in questione e ci abbiamo tappezzato lo spogliatoio. La domenica abbiamo vinto 3-0 e loro il pallone non l’hanno mai visto, se non alla fine della partita.

Ci racconti qualche retroscena di mercato?
Il primo anno di B dopo la promozione, a salvezza ottenuta e con una serie di problemi economici già in corso in società, la dirigenza mi disse che dovevo dimezzarmi lo stipendio se volevo restare perché avevo anche una certa età. Io mi arrabbiai perché non lo ritenevo giusto: avevamo fatto un bel campionato in fondo. Ulivieri, passato a Bologna, mi chiamò e mi propose di seguirlo in Emilia. Dopo 3 anni fatti assieme, con tante tante ore di allenamento e di approfondimento sulla parte tattica, mi avrebbe fatto piacere seguirlo. Io non volevo andare via, ma la proposta era veramente allettante. Prima di andare a parlare con Ulivieri il mio procuratore chiamò la società per avvisarli che ero a un passo dall’andare via, perché sapeva bene che se fossi andato a Bologna non sarei più tornato indietro. Mi chiamarono che ero già quasi a Rovigo e mi dissero che mi avrebbero offerto quanto il Bologna pur di farmi rimanere. Ulivieri si arrabbiò molto, ma col senno di poi è andata molto bene.

Cosa è successo con Baldini?
Ho esordito in Serie A a Parma contro un Baldini che invece era navigato, aveva già fatto la Serie A. Era una partita dominata da noi, volevo che andasse tutto bene, mi ero preparato mentalmente a tutto, anche il rapporto con la stampa. All’80° sul 2-2 il Catania faceva di tutto per portare a casa il risultato, falli, giocatori a terra e perdite di tempo di ogni tipo. A un certo punto un giocatore si è buttato per terra e io ho chiesto all’arbitro di tenerne conto per il recupero perché volevamo vincere la partita. Baldini si è incazzato per questa cosa, c’è stato qualche scambio di battute e di gesti poco corretti tra di noi e lui ha perso la bussola e mi ha tirato un calcio nel sedere. È stato un brutto episodio, perché noi abbiamo un ruolo di rappresentanza e dovremmo essere di esempio. Ci siamo chiariti successivamente, poi lui è uno fatto a modo suo e magari l’ha tirata un po’ lunga ma ci può stare, ci sono problemi più gravi in fondo.

Qual è il coro a cui sei più legato?
“‘I biancorossi… Sono dei gran bevitori…’. È una canzone che sento da quando ero giocatore ai tempi del ritiro di Enego. Tutto il weekend era una canzone dietro l’altra, ancora oggi quando la sento mi emoziono molto. Tutti gli altri cori ovviamente sono belli, ma questa ha un significato particolare.

Qual è il tuo sogno ad oggi?
Il primo sogno in assoluto è che finisca la pandemia e che si finisca di vedere la gente morire tutti i giorni. Calcisticamente parlando vorrei riportare il Lane in Serie A, questo è il sogno che voglio realizzare il prima possibile con l’aiuto della società.

E in caso di realizzazione cosa saresti disposto a fare?
Grazie a Guidolin che per ogni obiettivo raggiunto ci faceva fare 27 km di salita mi è nata un po’ la passione della bicicletta. Ad oggi sarebbe troppo semplice, vado a fare biciclettate in gruppo con degli amici. In caso di B potrei scalare il Grappa partendo da Vicenza. In caso di Serie A invece si fa il Gavia o il Mortirolo, salite da professionisti veri.

 

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